venerdì 14 agosto 2009

Lacrime e fiumi egizi


Quando si nasce si piange. Si sa già piangere, insomma, mentre per imparare a ridere ci vuole del tempo. Lungi da me il pensiero di fare della filosofia amara; in fondo è una chiara espressione dell'evoluzione, necessaria alla sopravvivenza: è molto più importante, urgente saper comunicare disagio e bisogni piuttosto che gradimento e piacere.
Nessun rancore nei confronti dell'esistenza, dunque, almeno per il momento.

Per me piangere è stata una riconquista, in età adulta. Penso di essere stata una neonata come le altre ma, non so perchè, già da bambina ho cominciato a disimparare a farlo. Non ricordo di aver mai pianto - pubblicamente, intendo - all'asilo e nemmeno alle elementari; non piangevo al cinema anche se alla fine dei film smielati le mie amiche erano una maschera di umidità paonazza; non sono riuscita a piangere nemmeno alla morte dei miei nonni. Non si sa per quale motivo, la lacrima pubblica mi impauriva tremendamente, avevo il blocco.
Eppure a casa piangevo, come tutti: davanti ai film, per le sgridate dei genitori, per delusioni amorose. Ma lo facevo in privato. Al massimo potevo piangere davanti ai miei se la causa erano loro, ma la mia espressione di intimità finiva qui.

Poi c'è stato lo sblocco. Quando il fidanzato storico mi ha lasciato mi sono lasciata andare in mezzo alla strada, con la mia migliore amica, e al funerale della mia bisnonna un'espressione di commozione sulla faccia di mio cugino, normalmente duro e algido, mi ha fatto esplodere. Peccato che il funerale fosse già finito da un pezzo; ce ne stavamo sulle scale della chiesa a scambiare battute simpatiche con parenti che non vedevamo da anni e io ho fatto la mia performance fuori luogo. Forse è stata la realizzazione del fatto che il dolore è normale, che capita, e che è normale esprimerlo a farmi uscir fuori dalla bolla di inespressività, non so; indagare sul perchè avessi difficoltà a farlo mi farebbe addentrare nei vortici della psicanalisi, ma non è questo che mi preme, ora.

Insomma, adesso so piangere. So ridere e so piangere, ed entrambe le cose le so fare sia da sola che in compagnia. Ma non è finita, la scoperta.
In età adulta (quella in cui credo di essere, almeno) ho scoperto nuove forme di pianto e di riso. Ridere per sdrammatizzare, per sorprendere, tranquillizzare è una delle cose che mi riescono meglio a scuola, coi bambini.

Ma la vera novità ha riguardato il pianto. Ho imparato a piangere per esprimere stanchezza, a piangere dal gran ridere, a piangere di commozione e a piangere per empatia. Piangere di felicità, poi, è stata la conquista migliore dei miei trent'anni.
Ho imparato, così, che la lacrima non scende solo per esprimere a livello istintivo bisogni e disagi fisici: forse è così all'inizio.
Poi, crescendo, diventa un mezzo per uscire da noi stessi, quando quello che sentiamo è troppo grande per essere contenuto.

In questi casi, il pianto è una benedizione: il Nilo che straripa per dar vita al limo.

Nessun commento:

Posta un commento